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I film horror Giapponesi (o “J-horror”) sono un genere horror a sé stante. Che si tratti di serial killer o di fantasmi, questi film creano un tipo diverso di paura rispetto ai classici film horror occidentali, ed è una paura spesso intrisa di timore esistenziale su ciò che significa esistere e sulla solitudine insita nella condizione umana. È un marchio speciale di nichilismo che spesso si accompagna all’assurdo, creando un horror che punta all’assurdità della vita stessa. Ed è questo tono ciò che rende questi film così difficili da adattare a una prospettiva occidentale. Sono così esplicitamente Giapponesi che la rimozione del contesto culturale elimina a sua volta buona parte dell’horror. Non si tratta solo di immagini o scene che fanno paura, ma di una paura psicologica più profonda che nasce dalla crescente solitudine nell’era della tecnologia.
Questa lista di film horror Giapponesi intende cogliere ogni sfaccettatura del genere, dalle commedie horror agli strazianti racconti di virus spettrali. Inoltre, intende cogliere l’ampia presenza dell’horror in Giappone, che è intrinsecamente legato a una complessa tradizione folcloristica che coinvolge spiriti, mostri e demoni. Alcuni registi vengono citati più volte: i grandi dell’horror Giapponese come Takashi Miike e Sion Sono non sono solo maestri del loro mestiere, ma sono anche incredibilmente prolifici e la loro influenza sul genere non può essere limitata a un solo film. Se siete nuovi dei film horror Giapponesi, la nostra lista sarà il posto perfetto per iniziare la vostra avventura in questo mondo unico e meraviglioso.
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Iniziamo la nostra lista dei migliori film horror Giapponesi con Tetsuo. Questo è un film per gli amanti del gore. È anche un film per gli appassionati di horror di alto livello che non si basano su una narrazione fissa, ma piuttosto sulla creazione di un’atmosfera molto specifica che mette tensione. Diretto da Shinya Tsukamoto, Tetsuo racconta la vita di un impiegato (Tomorowo Taguchi) i cui pensieri sono tormentati da immagini del suo corpo penetrato da frammenti di metallo. Questi pensieri orripilanti trasudano poi nella vita reale quando nella realtà l’uomo incontra un feticista del metallo, che ama inserire il metallo nella sua pelle.
Sebbene Tetsuo sia girato in bianco e nero, ciò non rende la sua violenza grafica meno raccapricciante. Il sangue che sgorga dalle ferite aperte assomiglia a un olio appiccicoso e la carne umana diventa sinonimo di macchinario. Ma ciò che è ancora più affascinante di Tetsuo è che si tratta in definitiva di una storia d’amore tra l’impiegato e il feticista del metallo, entrambi desiderosi di un’unione empia tra carne e freddo acciaio.
Kwaidan, che si traduce in “storia di fantasmi”, è un film antologico horror del 1964 diretto da Masaki Kobayashi, basato sulla raccolta di racconti popolari giapponesi di Lafcadio Hearn. Il primo racconto, “I capelli neri”, segue un samurai povero che si pente di aver lasciato la sua fedele moglie per una donna più ricca, ma fredda, al fine di ottenere un migliore status sociale.
La successiva è “La donna della neve”, in cui due taglialegna si rifugiano in una capanna durante una tempesta di neve. Lì, uno di loro viene ucciso da uno spirito arrabbiato, che risparmia l’altro a condizione che non racconti mai a nessuno ciò che ha visto. La sua determinazione viene messa alla prova quando incontra una bella donna che assomiglia allo spirito.
Il terzo segmento è una storia nella storia intitolata “Hoichi il senza orecchie”, in cui un musicista cieco di nome Hoichi attira l’attenzione di una ricca famiglia che potrebbe non essere umana. L’ultimo racconto, “In una tazza di tè”, è un segmento breve e dolce su un uomo che continua a vedere volti nel suo tè. Kwaidan è una splendida immersione nel folklore giapponese e in alcune delle sue tradizionali storie di fantasmi che sono state raccontate – e raccontate – per secoli. È uno di quei film horror Giapponesi che davvero non potete perdere.
Non sarà l’unico film in found footage di questa lista di film horror Giapponesi. Dopo aver diretto il cult (ora classico dell’horror) Ju-on: Rancore, il regista Takashi Shimizu ha realizzato “Marebito”, una storia di un uomo nervoso che diventa ossessionato dal filmare il mondo che lo circonda dopo aver visto un uomo suicidarsi. Attraverso la sua telecamera, l’uomo spera di capire meglio la morte.
Nella sua ricerca, il protagonista viaggia in un mondo bizzarro sotto Tokyo, armato solo della sua videocamera. Mentre si avventura in questo strano luogo, incontra una giovane donna incatenata a un muro, che decide di “salvare” e portare a casa sua. Ma, mentre trascorre più tempo con questa donna, si rende conto che non mangia, non beve e non parla nemmeno – sì, ci stiamo addentrando nel territorio dei vampiri.
Mentre continua a prendersi cura della sconosciuta, la vita dell’uomo diventa più violenta e si rende conto di aver portato in superficie qualcosa che avrebbe dovuto essere lasciato dove era stato trovato. Marebito prende molti spunti dalle opere di H.P. Lovecraft, giocando con la follia travolgente intrinseca all’orrore cosmico.
Sion Sono è un genio folle che non si lascia frenare da quisquilie come una “narrazione coesa”. Nel suo film del 2015 “Tag”, la studentessa Mitsuki (Reina Triendl) è l’unica sopravvissuta a un terribile incidente, durante il quale una folata di vento taglia a metà il suo autobus con tutti i suoi compagni di classe. Questa introduzione getta le basi per una storia davvero senza senso che include dimensioni multiple, identità sbagliate, insegnanti armati di mitragliatrice e molto altro ancora.
Tag è uno di quei film horror Giapponesi fatti per gli amanti del gore in cerca di qualcosa di assolutamente figo e femminista. Infatti, mentre Mitsuko viaggia attraverso un sanguinoso paesaggio infernale, guardando tutti i suoi amici morire proprio davanti a lei, Sono si interroga sull’oggettificazione e sull’uso del corpo femminile nell’horror d’exploitation. Ma allora, perché si chiama esattamente Tag? È davvero tutto un grande gioco? Non resta che guardarlo per scoprirlo.
Il classico horror Onibaba di Kaneto Shindo del 1964 è ambientato nel Giappone del XIV secolo, dove un’anziana donna e sua nuora cercano di sopravvivere durante una guerra civile. In attesa del ritorno del figlio-marito, le donne uccidono i soldati, saccheggiano i loro corpi e vendono i beni rubati per potersi permettere di sopravvivere. Ma quando il loro vicino torna dalla guerra, le cose si complicano e uno strano triangolo amoroso minaccia il violento, ma semplice, stile di vita delle donne.
Pieno di tensione con un pizzico di soprannaturale, Onibaba è uno degli esempi di eccellenza dei film horror giapponesi, che adatta il folklore classico giapponese in qualcosa che onora il passato e lo porta nel presente. I primi lavori di Shindo hanno creato un precedente importante per il genere e, a loro volta, hanno contribuito a plasmare il gruppo di registi di film horror Giapponesi moderni.
Sono compare di nuovo in questa listadei migliori film horror Giapponesi, questa volta con il suo film del 2001 “Suicide Club”, che parla proprio di questo: un club dove la gente si suicida. Il film inizia con un folto gruppo di studentesse di tutta Tokyo che si tengono per mano e saltano insieme davanti a un treno in corsa. Mentre i corpi continuano ad accumularsi – letteralmente – per le strade del Giappone, il detective Kuroda (Ryō Ishibashi) cerca di capire cosa stia causando questi suicidi. La risposta si trova in una complessa serie di indizi che include siti web criptici e tatuaggi speciali.
Sebbene il film affronti un argomento serio, Sono non ha paura di rendere questo tabù oscuramente divertente. Questo film controverso si basa su un’infarinatura di immagini violente e assurde, creando un’esperienza cinematografica che vi terrà avvinti dall’inizio alla fine. Anche con la sinistra giocosità di Sono, Suicide Club è in definitiva un film inquietante e nichilista sugli effetti del mondo digitale sulle giovani generazioni, le cui menti impressionabili diventano facili bersagli per chi ha intenzioni malvagie.
Non c’è modo di catturare veramente l’essenza psichedelica dello stravagante classico del 1977 di Nobuhiko Obayashi, Hausu, un film pieno di gatti disincarnati, animazioni mozzafiato e molto, molto altro.
In Hausu, una giovane donna di nome Oshare porta un gruppo di amiche a casa della zia durante l’estate per rilassarsi in campagna, ma non sanno che questa casa è profondamente infestata. Lì le attende solo un tragico destino. Hausu è un film che si sa esattamente di cosa si tratta, e Obayashi si impegna con tutto il cuore in questa pellicola. Il risultato è un capolavoro che non pretende mai di essere elegante; al contrario, Hausu si appoggia alla sua natura stravagante, con effetti speciali poveri e sequenze di animazione selvagge.
Naturalmente, anche qui c’è un lato senza senso: Hausu è stato scritto con l’aiuto della giovane figlia di Obayashi. È quindi stato concepito anche dalla mente di una bambina e la sua onestà su ciò che la spaventava da piccola contribuisce a creare uno dei film horror Giapponesi più strani di sempre.
Girata in una splendida tavolozza di colori monocromatici, la storia di fantasmi “Kuroneko” di Kaneto Shindo, del 1968, è un racconto di vendetta di una donna e di sua nuora, che ritornano sotto forma di spiriti arrabbiati dopo essere state violentate e uccise da dei samurai violenti durante una guerra nel Giappone feudale. Se questa trama vi suona familiare, è perché Shindo ha scritto e diretto “Onibaba” solo quattro anni prima.
Questi due spiriti, noti come onryo, infestano una strada popolare, seducendo i samurai solitari e attirandoli per ucciderli. Prendono le sembianze di gatti neri che si avventano e guaiscono sulle loro prede. Le loro forme feline consentono anche alcune impressionanti acrobazie aeree da parte delle due interpreti femminili principali. Kuroneko è un’affascinante rivisitazione della storia dello stupro e della vendetta; anche nella morte, queste due donne devono cercare di trovare giustizia per il male inflitto loro da chi ha il potere. Pur essendoci molti omicidi, il film non contiene quasi nulla di cruento, ma si affida a un’atmosfera opprimente e minacciosa per creare il suo tono inquietante e horror. È uno di quei film horror Giapponesi da vedere.
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Uscito nel 2002, “Ju-on: Rancore” è stato il terzo film del franchise, ma il primo a essere distribuito nelle sale e quindi il primo della trilogia a lasciare un segno importante nel genere dei film horror giapponesi. Quando una donna di nome Kayako e suo figlio vengono uccisi dal marito dopo aver scoperto la sua infedeltà, esse muoiono con un profondo rancore nel cuore. La loro rabbia si diffonde come un’infezione e i due torturano e uccidono lentamente chiunque entri nella loro casa.
La tradizione dei fantasmi pieni di rabbia che rifiutano di passare a miglior vita è un tropo tradizionale dell’horror giapponese, in particolare per le donne disprezzate che cercano di vendicarsi degli uomini che hanno fatto loro un torto. “Ju-on: Rancore” ha introdotto molte immagini iconiche dell’horror, oltre all’indimenticabile urlo agghiacciante che esce dalla bocca di un ragazzo mentre si avventa sulla sua prossima vittima.
Shimizu ha successivamente adattato Ju-on: Rancore in un film in lingua inglese con un cast prevalentemente bianco, ma l’originale è una quintessenza del cinema horror giapponese che vi farà sognare. È impossibile dimenticare il rantolo di morte del ragazzo o il suono di Kayako che scende le scale in modo inquietante, mentre le sue articolazioni scricchiolano e scattano.
Ringu è un classico dei film horror Giapponesi ed è quello che ha reso il J-horror un fenomeno mainstream a livello internazionale. Uscito nel 1998 e diretto da Hideo Nakata, Ringu parla di una videocassetta maledetta che uccide chiunque la guardi dopo sette giorni. Il contenuto della cassetta è un amalgama di immagini inquietanti, che culmina in una sequenza in cui una giovane ragazza si arrampica fuori da un pozzo.
Mentre indaga sul nastro, la reporter Reiko Asakawa si reca sulla piccola isola di Izu, cercando di scoprire l’origine del nastro e l’identità della ragazza nel pozzo; è reale o si tratta di uno scherzo elaborato? Durante le sue indagini, le persone che circondano Asakawa muoiono di morte violenta dopo aver visto il nastro stesso. Ringu è il primo film in cui compare lo spirito vendicativo Sadako, con i lunghi capelli neri e bagnati che le ricoprono il viso. È stato anche uno dei primi film ad affrontare il crescente panorama digitale giapponese e gli orrori che si nascondono nella nostra crescente dipendenza dalla tecnologia.
Takashi Miike dipinge spesso con un pennello sanguinoso e raccapricciante, creando alcuni dei film horror Giapponesi più estremi del Sol Levante. Ma probabilmente il suo lavoro migliore è il film del 1999 “Audition”, uno dei film horror preferiti da James Gunn, oltre che una storia angosciante sulla ricerca del romanticismo e sulla dannosa misoginia della vecchia generazione giapponese.
Shigeharu Aoyama (Ryo Ishibashi) è un produttore cinematografico solitario e vedovo che vive una vita tranquilla. Un giorno, il figlio adulto suggerisce ad Aoyama di risposarsi. Per aiutare Aoyama a trovare l’amore, il suo amico Yasuhisa Yoshikawa organizza dei provini per un finto ruolo cinematografico; in realtà, la “parte” è quella della futura moglie di Aoyama.
Durante il provino, Aoyama si innamora della tranquilla e misteriosa Asami (Eihi Shiina). Mentre la loro relazione sboccia, lui inizia a scoprire gli oscuri segreti sul passato di Asami: abusatori smembrati, abbondanti quantità di filo per pianoforte e ciotole di vomito. Sebbene Audition inizi come un dramma relazionale dal ritmo lento, l’atto finale del film vale la pena di essere visto: è una delle sequenze più scioccanti mai realizzate su pellicola. Audition funge anche da perfetta introduzione ai lavori di Miike, illustrando il suo stile cinematografico unico e la sua straordinaria capacità di creare immagini disgustose e inquietanti.
I film di Kaiju sono spesso considerati spettacoli campeggianti, privi di un reale fattore di paura. I costumi di gomma a buon mercato distraggono dalla distruzione della città. Le massicce battaglie tra mostri sono al centro dell’attenzione, non il trauma inflitto a milioni di persone. Ma il film di kaiju originale, “Godzilla”, diretto da Ishiro Honda nel 1954, è un terrificante film di mostri che esamina gli orrori della guerra nucleare.
Nella sua iterazione originale, Godzilla è un’antica creatura risvegliata dal suo sonno sottomarino dai test delle bombe atomiche nell’Oceano Pacifico. Ora viaggia attraverso il Giappone, lasciando la devastazione nella sua scia. Non solo la città di Tokyo viene mostrata bruciata, ma Honda si concentra anche sulle persone colpite dalla distruzione di Godzilla, ritraendo ospedali pieni di famiglie singhiozzanti e bambini morenti. In questo film, Godzilla è una creatura terrificante inviata a creare scompiglio su coloro che cercano di giocare a fare Dio. È uno di quei film horror Giapponesi da provare.
All’inizio del secolo, una delle più grandi paure del Giappone era il crescente isolamento dovuto alla crescita di Internet. Kiyoshi Kurosawa ha incapsulato questa ansia culturale nel suo film del 2001 “Pulse”, che parla di un virus fantasma che trapela da Internet nella realtà. In una storia parallela, due giovani donne scoprono che qualcosa di strano sta accadendo ai loro amici, che iniziano a suicidarsi dopo aver lasciato biglietti criptici in cui chiedono aiuto.
Quando le loro storie convergono, le donne scoprono che il mondo degli spiriti ha trovato un modo per accedere e infettare il mondo reale attraverso le connessioni Internet. È come un virus informatico, ma che si impossessa anche delle menti delle persone reali. E, come ogni virus, la forza misteriosa inizia a proliferare in modo esponenziale, mietendo ogni giorno sempre più vittime. Kurosawa crea alcuni momenti davvero strazianti, tra cui una scena con un fantasma che balla lentamente, più minaccioso di qualsiasi altro spirito cinematografico di recente memoria. È uno di quei film horror Giapponesi a cui va data un’occasione.
Il genere del found footage nei film horror Giapponesi è terrificante, data la sua capacità di mettere il pubblico nei panni di personaggi terrorizzati utilizzando un punto di vista in prima persona. Ma il regista Kōji Shiraishi lo porta a un altro livello con il suo film del 2005, “Noroi: The Curse”. Il film è presentato come un documentario incompleto del ricercatore paranormale e giornalista Masafumi Kobayashi (Jin Muraki), noto per i suoi libri, documentari e serie televisive su eventi spettrali in Giappone. In questo documentario, Kobayashi inizia a indagare sulle segnalazioni di alcuni suoni disincarnati di bambini che piangono, ma il film diventa presto qualcosa di molto più sinistro.
Sebbene “Noroi: The Curse” dichiari fin dall’inizio che la casa di Kobayashi è bruciata e che lui è scomparso, ciò non rende meno terrificanti le rivelazioni di Kobayashi, in particolare per quanto riguarda alcune immagini profondamente inquietanti alla fine del film. Questo non è il tipico film di found footage, pieno di riprese traballanti e foreste infestate. Si tratta di un elegante pseudo-documentario che gioca con la verità e con il modo in cui i registi costruiscono la fiducia del pubblico. “Noroi: The Curse” non è solo un brillante esempio di horror giapponese, ma anche del genere found footage nel suo complesso.
Per quel che riguarda i film horror Giapponesi, uno dei maestri dell’horror psicologico è senza dubbio Kiyoshi Kurosawa, poiché crea storie che si insinuano nella pelle e si incancreniscono, perseguitandoci per giorni. Il suo film del 1997 “Cure” – uno dei film preferiti del regista di “Parasite” Bong-Joon Hoo – ne è un esempio lampante, che cattura la paura profonda di perdere il controllo e la distruzione che spesso deriva dall’ossessione. Kenichi Takabe (Kōji Yakusho) è un detective che indaga su una serie di strani omicidi in cui tutte le vittime sono contrassegnate da una X gigante, eppure sono state uccise da persone diverse. Ancora più strano è che gli assassini non ricordano di aver commesso i crimini e non hanno una vera motivazione per gli omicidi.
Takabe fatica a capire il mistero, finché non cattura Mamiya (Masato Hagiwara), che sembra avere una perdita di memoria a breve termine. Tuttavia, il detective scopre lentamente che Mamiya è un maestro dell’ipnotismo e che usa queste doti per manipolare le persone innocenti. “Cure” si trasforma in un teso gioco del gatto e del topo, ambientato su uno sfondo grigio e cupo che crea un’atmosfera opprimente e soffoca sia il pubblico che i personaggi. “Cure” è un perfetto esempio di horror giapponese e di come combina in modo semplice immagini inquietanti e terrore esistenziale.
Zombie contro zombie – One Cut of the Dead di Shinichirou Ueda è uno dei più inaspettati film horror Giapponesi del genere mai realizzati. Presentato come una commedia sugli zombie, abbraccia pienamente ogni cliché e tropo del genere, ma capovolge completamente il formato. Il film segue una troupe cinematografica che sta girando il proprio thriller apocalittico in una centrale idrica abbandonata quando dei veri zombie li attaccano 一 o almeno così pensa lo spettatore. La seconda metà del film esplora esattamente ciò che sta accadendo, rivelando varie buffonate dietro le quinte e il modo in cui il film viene girato in una sola ripresa.
Zombie contro zombie – One Cut of the Dead riesce a reinventare totalmente un genere stantio. Si potrebbe sostenere che si tratta di una commedia in piena regola che utilizza le convenzioni dell’horror, ma il gore e la violenza sono davvero da urlo. Kazuhide Shimohata e l’assistente Kasumi Nakamura realizzano sequenze meravigliosamente sanguinose che potrebbero ossessionarvi a lungo, con il grande aiuto degli eccellenti effetti visivi di Yusuke Kambayashi. Entrate in sala aspettandovi l’inaspettato, e rimarrete comunque sorpresi.
Non è facile iniziare un film, tanto meno un horror, con un monologo di 20 minuti. Eppure, “Confessions” di Tetsuya Nakashima, tratto dal romanzo del 2008 della scrittrice Kanae Minato, inizia con un’interpretazione brillante ed emotivamente straziante di Takako Matsu, che interpreta un’insegnante di liceo di nome Yuko Moriguchi. Il suo epico discorso si focalizza sulle sue intenzioni di dimettersi dal suo incarico e spiega esattamente il motivo: la morte di sua figlia per mano di due compagni di classe. I flashback si attorcigliano come filo spinato intorno al presente, bucando lentamente la storia fino a far uscire copiose quantità di sangue.
È meglio entrare in “Confessions” quasi alla cieca. È un film ricco di colpi di scena, che solleva innumerevoli questioni morali. Si dice che la vendetta sia un piatto che va servito freddo, ma Yuko esegue la sua vendetta a caldo. L’esposizione iniziale carica il film, e c’è una ragione per questo: La storia si trasforma presto in una lezione sulla vendetta e sul risentimento. Il film esplora anche la nascita di un vero psicopatico, la cui cattiveria nasce dal profondo desiderio di essere visto e ascoltato. Questo è uno di quei film horror Giapponesi che hanno fatto la storia.
https://www.youtube.com/watch?v=Z3CoqQsoSIw
A dire il vero, è impossibile essere pronti per “Tokyo Gore Police”, un film horror Giapponesi del 2008. Diretto da Yoshihiro Nishimura, che ne ha curato la sceneggiatura insieme a Kengo Kaji e Sayako Nakoshi, il film è un implacabile viaggio acido nel mondo dei matti. Nei primi due minuti, una testa che esplode dà il via a quello che è in definitiva uno spettacolo di gore e violenza nauseante e alterante. È senza dubbio uno dei film più disgustosi usciti negli ultimi 30 anni.
Eihi Shiina interpreta Ruka, un vendicativo agente di polizia incaricato di dare la caccia agli “ingegneri”, ovvero esseri umani mostruosi con mutazioni meccaniche. Gli arti e le teste vengono spesso amputati o decapitati, con conseguenti schizzi di sangue e pezzi di carne, e raramente si ha un momento di pace prima che la sequenza successiva, nauseante e sopra le righe, ci piombi addosso. Nella sua ricerca di vendicare l’omicidio del padre, Ruka combatte contro una serie di ingegneri. Il suo viaggio non fa altro che portare ad un’ulteriore violenza; in questo film, ogni fotogramma è scioccante come il precedente.
C’è un motivo per cui “Dark Water” sembra risiedere nello stesso universo di “Ringu” e dei suoi sequel. L’autore Koji Suzuki è il geniale narratore di entrambe le opere. Con il regista Hideo Nakata al timone, il film (adattato da Yoshihiro Nakamura e Kenichi Suzuki dall’opera di Suzuki) segue una donna divorziata e la sua giovane figlia, che si trasferiscono in un condominio abbandonato. In mezzo a un’aspra battaglia per la custodia, Yoshimi Matsubara (Hitomi Kuroki) fa di tutto per dare a Ikuko (Rio Kanno) la migliore vita possibile.
Nei primi giorni, un soffitto che perde diventa un grosso problema. Yoshimi si lamenta con la reception, ma senza successo. Mette un vaso sul pavimento per raccogliere gli scoli e continua la sua vita. Ha appena iniziato un nuovo lavoro e le cose vanno abbastanza bene. Ben presto, però, si svela un oscuro mistero che coinvolge una ragazza locale scomparsa, una borsa rossa brillante e l’innalzamento delle acque dell’alluvione. “Dark Water” non reinventa necessariamente la ruota, ma il suo atto finale è ricco di atmosfera e spaventi macabri. È uno di quei film horror Giapponesi da vedere.
L’action-thriller del 2000 ha ridefinito un intero sottogenere di horror. Diretto da Kinji Fukasaku, “Battle Royale” (basato su un romanzo del 1999 di Koushun Takami) affronta gli atti di violenza della nuova generazione e il loro crescente odio per gli adulti, commentando al contempo il trattamento riservato ai millennial e il modo in cui essi sono, presumibilmente, la causa della rovina della società. Il film è stato così controverso che non è mai stato distribuito in Italia fino al 2008 e negli Stati Uniti fino al 2012.
Nel mondo del film, il governo approva il “BR ACT”, che costringerà gli studenti delle scuole medie a scontrarsi all’ultimo sangue per contenere l’aumento del tasso di criminalità. Durante una gita, quindi, i nuovi studenti delle medie vengono catturati dagli agenti, imbavagliati e portati su un’isola deserta e sperduta. Al loro risveglio, scoprono di essere stati legati con dei collari metallici per cani e costretti a iscriversi al torneo mortale. Con una borsa di sopravvivenza contenente cibo, acqua e un’arma a caso, devono sopravvivere per tre giorni. Ma c’è altro modo per uscirne: solo uno studente rimarrà vivo.
Battle Royale non ha paura di correre grossi rischi e di uccidere molti dei personaggi principali, quindi affezionarsi a qualcuno è un grosso errore. A distanza di oltre due decenni, è facile capire perché sia diventato un film così innovativo. Da “Hunger Games” alla serie di grande successo di Netflix “Squid Game”, l’influenza di Battle Royale su tutte queste opere è stata inconfondibile. È uno di quei film horror Giapponesi che sono diventati dei classici.
Andando avanti con la nostra lista dei film horror Giapponesi, troviamo il film del 1969 “L’orrore degli uomini deformi”, diretto da Teruo Ishii, trae elementi da due romanzi di Edogawa Rampo: “La strana storia dell’isola panoramica” e “Il demone dell’isola solitaria”. Il risultato è una miscela spumeggiante di film noir, body horror e demenza.
Dopo essere fuggito da un manicomio, l’aspirante medico Hirosuke (Teruo Yoshida) va alla ricerca della verità sul suo passato e sul motivo per cui è stato ricoverato in una struttura psichiatrica. Il suo è un viaggio pazzesco. Durante la sua ricerca, fa amicizia con una ragazza del circo e riceve una soffiata su un’isola abbandonata, una ricca famiglia chiamata Komoda e dei segreti sepolti. Una volta arrivato sull’isola, incontra uno scienziato squilibrato che è deciso a creare quello che definisce un “mondo ideale” modificando chirurgicamente gli esseri umani. Alcuni vengono legati a un’altra persona, altri vengono cuciti a qualsiasi tipo di bestia pelosa. Il macabro serraglio è una delle immagini più inquietanti e bizzarre che siano mai state proiettate sullo schermo. E quando verrà rivelato il finale, beh, sarà così assurdo che potreste non crederci nemmeno voi.
“Noriko’s Dinner Table” è un’epica tragedia poetica di 159 minuti. Il film, scritto e diretto da Sion Sono, segue “Suicide Club” del 2002 e approfondisce la psicologia del desiderio, della disperazione e della delusione umana. Noriko (Kazue Fukiishi) desidera sentirsi necessaria e inclusa nel mondo, e spesso vaga senza meta nella sua vita. Il padre severo vuole che frequenti un college locale, ma lei ha puntato tutto su Tokyo, dove, sostiene il padre, i ragazzi non sono buoni.
Durante un blackout notturno, Noriko impacchetta i suoi oggetti più preziosi e si dirige verso la grande città. Lì fa amicizia con la compagna online Ueno54 (Tsugumi), che la introduce alla I.C. Corp, una società che affitta delle persone che si fingono di essere membri delle famiglie dei clienti. Vivendo vite finte per conto di vari clienti, Noriko scopre cosa significa essere desiderata.
“Noriko’s Dinner Table” parla tanto del lato oscuro della città quanto dell’autorealizzazione di Noriko e della sua crescente comprensione della propria identità. Mentre il mistero si dipana lentamente, rimarrete a guardare l’ipnotica interpretazione della protagonista Fukiishi. È uno di quei film horror Giapponesi unici nel loro genere e molto interessanti da guardare.
Per quanto riguarda le commedie horror, “Wild Zero” è una follia post-apocalittica di altissimo livello. Diretto da Tetsuro Takeuchi, questo lungometraggio del 1999 segue le vicende di Ace (Masashi Endō), un fan ossessionato dal gruppo musicale Giapponese “Guitar Wolf” (realmente esistente) e del suo nuovo interesse amoroso, Tobio (Kwancharu Shitichai), mentre affrontano la fine del mondo. Un meteorite si schianta nella periferia di una città chiamata Asahi, dove uno sciame di mangiatori di carne emerge dai detriti scatenando letteralmente l’inferno.
Dal ritmo glaciale degli zombie, al trucco esagerato, alla colonna sonora rock, “Wild Zero” è pronto per essere apprezzato da tutto il pubblico amante dell’horror. “Il rock and roll non muore mai!” sembra essere la tesi centrale del film, avvolta da varie storie d’amore e da un fervente machismo. Il gruppo garage-rock Guitar Wolf svolge un ruolo importante nel salvare l’umanità, e questo è solo un assaggio. Il gore è notevole, i personaggi prendono decisioni oltraggiose e gli elementi di comicità slapstick sono garantiti per suscitare risate ad ogni minuto del film.
Nel film del 2010 “Cold Fish”, il regista Sion Sono, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Yoshiki Takahashi, scava liberamente negli orrori della vita reale di due serial killer, Sekine Gen e Hiroko Kazama. Quello che inizia come un dramma intimo e di basso livello si trasforma rapidamente in un’orrenda, tetra e difficile da digerire dimostrazione della depravazione dell’umanità. Shamoto (Mitsuru Fukikoshi) è terribilmente infelice nel suo matrimonio con la seconda moglie Taeko (Megumi Kagurazaka), per cui trova grande gioia quando il proprietario di un negozio di pesce Murata (Denden) esprime affetto per lui.
Ormai irretito sentimentalmente, Murata arruola Shamoto come complice in una frenesia di piccoli omicidi. Ben presto, la loro relazione diventa contorta oltre ogni limite. “Cold Fish” è pieno di scene cruente che faranno venire la nausea anche ai meno schizzinosi. È un vero e proprio modello di making-a-murder che guida lo spettatore in un labirinto spietato e apparentemente senza fine di violenza grafica così scomoda che non la dimenticherete presto. È uno dei migliori film horror Giapponesi mai realizzati, senza alcun dubbio.
Arriviamo alla prima posizione di questa classifica sui migliori film horror Giapponesi e troviamo un film basato su una popolare serie manga, “Death Note” del 2006 segue uno studente universitario di nome Light Yagami (Tatsuya Fujiwara) e la sua missione di creare una società ideale eliminando i criminali. Il suo viaggio inizia quando scopre un misterioso quaderno intitolato “Death Note”. Quando Light scrive sulle sue pagine i nomi di varie persone, queste muoiono. Inizia quindi a riempire il quaderno con coloro che considera malvagi, sperando di rendere il mondo un posto migliore. L’ondata di omicidi che ne consegue mette in allarme l’Interpol e il detective L (Kenichi Matsuyama) viene incaricato di scoprire la verità e di rintracciare Light mentre il giovane va fuori controllo.
Diretto da Shusuke Kaneko, “Death Note” abbraccia pienamente la sua premessa bizzarra, in particolare con l’inclusione di un ghoul in CGI che sfoggia una moda emo. L’impegno degli attori e il fantastico lavoro del team di produzione fanno di questo film un must da vedere.
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